I TENTACOLI DEL CRIMINE - capitolo 13 (finale)

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  1. andrea68rapi
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    Capitolo 13




    Il tempo passava inesorabilmente, cadenzato dalla lenta progressione del sole da oriente verso occidente. In quella domenica di novembre, i posti di blocco istituiti dai carabinieri per catturare le responsabili della rapina in villa, nonostante i controlli minuziosi, non avevano finora avuto alcun esito. Nella postazione a pochi chilometri dalla Collina dei Fiori, i tre militi cominciavano a sentire la pesantezza di una giornata trascorsa nella massima tensione. Ciò nonostante, erano consapevoli della responsabilità loro affidata e sapevano che una minima disattenzione, nel controllo a campione delle vetture, poteva essere fatale.
    Erano da poco passate le quindici, quando si avvicinò una Ford Escort di colore grigio metallizzato. I carabinieri videro da lontano che la vettura era guidata da una donna, pertanto il capo pattuglia, camminando qualche passo verso il centro della strada, allungò la paletta e invitò la conducente ad accostare sulla destra. Bastò una rapida occhiata per verificare che la donna era sola.
    «Favorisca patente e libretto, per favore» disse l’uomo dopo aver appoggiato la mano destra sulla fronte come saluto. Ottenuti i documenti, il carabiniere si avvicinò alla propria macchina per comunicare con la centrale attraverso la ricetrasmittente.
    «Pronto? Fatemi questo controllo: Rosso Marcella, nata il 23 aprile 1982» comunicò il capo pattuglia che, subito dopo, diede i dati relativi alla macchina.
    L’impiegato della centrale fece passare alcuni attimi, necessari per fare i necessari controlli su conducente e vettura, quindi rispose:
    «Incensurata! E la macchina risulta intestata regolarmente a lei. Per noi è pulita».
    Soddisfatto questo primo controllo, il carabiniere tornò verso l’auto di Marcella.
    «Dobbiamo perquisire la sua macchina, signora. Per cortesia, scenda! Ne avremo per circa un quarto d’ora».
    «Ma che cosa è successo?» chiese Marcella, fingendo un atteggiamento di stupore misto a sconcerto.
    «C’è stata una rapina, ieri notte».
    Il tono brusco dell’uomo non ammetteva repliche e la donna scese dall’auto, fece qualche passo e si accese una sigaretta con l’accendino sottratto a Ermanno. Non poteva vederli, ma sapeva che occhi femminili stavano guardando la scena, nascosti da qualche parte nella vegetazione.
    Un quarto d’ora dopo, il carabiniere che si era occupato della perquisizione fece un cenno al proprio superiore.
    «Abbiamo finito» disse questi a Marcella in tono cortese, ma freddo. «Può andare. Ci scusi per il disagio che le abbiamo causato».
    La Ford Escort, quindi, riprese il suo viaggio lasciandosi alle spalle i tre carabinieri, ormai concentrati su altre vetture.

    Tutte le strade della zona erano percorse, già da diverse ore, da pattuglie di carabinieri che sfrecciavano, talvolta a sirene spiegate, talvolta solo con i lampeggianti, destando curiosità fra gli abitanti e fra coloro che occasionalmente stavano transitando per quelle vie.
    All’interno di una locanda situata qualche chilometro più a nord, rispetto alla Collina dei Fiori, un uomo stempiato di circa sessant’anni stava sorseggiando il caffè, in piedi al banco.
    «Ma che diavolo succede, oggi?» chiese, in un marcato accento milanese, rivolto al barista. «Continuano a passare macchine dei carabinieri con le sirene accese!».
    «Non ha sentito i notiziari?».
    «No» rispose l’uomo, quasi seccato di dover fare la parte di colui che vive fuori dal mondo.
    «E’ avvenuta una rapina in una villa, a pochi chilometri da qui».
    «Ah!». Il cliente scosse la testa per l’indignazione «Non se ne può più, guardi. Tutti i giorni si sente parlare di rapine, furti negli appartamenti, truffe agli anziani… E lo stato non fa nulla! Anche se li prendono, dopo due giorni li rimettono in libertà».
    Una donna che gli era accanto, presumibilmente la moglie, ascoltava con un volto sconcertato e, di tanto in tanto, sbottava in tono indignato. In fondo alla sala, due ragazzi parlavano e ridevano fra loro.
    «E intanto, continuano ad arrivare coi barconi» riprese l’uomo. «Ne abbiamo abbastanza dei nostri, di criminali, senza che ne vengano altri da fuori. Ma è così… questo è il risultato delle politiche buoniste. Ci vorrebbe la pena di morte!».
    La moglie del barista, che fino ad allora era rimasta girata a pulire le macchine degli espressi, si voltò verso il cliente.
    «Beh, adesso… siamo nel 2018!» commentò.
    Ma l’uomo non sentiva ragioni.
    «Sì, sì, sì, guardi… bisogna fare qualcosa di più drastico. Ma lo sa che alla stazione di Milano, a certe ore, si ha paura solo a entrare?».
    «Ma cosa centra questo con la rapina? Tra l’altro, alla radio dicono che le responsabili sono donne!» replicò il padrone del locale.
    Il milanese rimase un attimo interdetto, poi sbottò:
    «Mi sta prendendo in giro?».
    «No, no. Così hanno detto».
    «Beh, questa è una barzelletta» disse il cliente, ridacchiando. «E’ sicuro di aver capito bene?».
    «Le riporto ciò che hanno comunicato alla radio!».
    «Avrà capito una cosa per l’altra!».
    Il barista evitò di ribattere anche perché, nel frattempo, aveva sentito il rumore della porta che si apriva. Rivolse lo sguardo, quindi, verso il nuovo arrivato ma, di colpo, impallidì. Di fronte a sé aveva una donna vestita molto elegantemente, ma ciò che la contraddistingueva era il fatto che avesse il volto coperto da una calzamaglia e che, fra le mani inguantate, stringesse una pistola. Dietro di lei, entrarono altre due donne agghindate alla stessa maniera: solo una, a differenza delle complici, calzava ballerine anziché scarpe col tacco.
    Nel locale calò un silenzio di tomba, prima che il padrone riuscisse a balbettare qualche parola:
    «Chi… chi siete?».
    «Tutti sdraiati per terra, svelti!» fu la risposta della prima rapinatrice. «State calmi e nessuno si farà del male».
    La coppia milanese fu solerte a eseguire l’ordine, compreso l’uomo che, fino a qualche istante prima, era stato molto baldanzoso nell’esprimere giudizi trancianti.
    «Anche voi due… fuori!» disse la donna misteriosa ai due baristi, puntando loro la pistola.
    La complice che indossava le ballerine si infilò dall’altra parte del banco e, aperta la cassa, cominciò a prelevarne il contenuto per riporlo in un sacco nero. Nel frattempo, la terza rapinatrice si era portata vicino al tavolo più lontano, tenendo sotto tiro i due ragazzi che si erano già distesi lungo il pavimento.
    «Sei sordo? O hai bisogno di una richiesta scritta? Ti ho detto di tenere la faccia a terra!» intimò, quella che sembrava il capo della banda, al cliente milanese che aveva accennato ad alzare la testa. Arretrando di qualche passo, tenendo sempre la pistola a due mani, la donna si avvicinò allo scaffale dove, insieme alle riviste, erano esposti molti giocattoli e, attenta a non farsi notare, afferrò una scatola di un modellino d’auto e un sacchetto di animaletti di gomma e, velocemente, li infilò in una busta di nylon.
    «Fatto!» comunicò la complice che aveva svuotato la cassa.
    «Ok! Possiamo andare» replicò la capo-banda che, sempre camminando all’indietro e con lo sguardo sulle persone sdraiate a terra, ordinò: «Guai a voi se vi alzerete nei prossimi dieci minuti». E guadagnata la porta, se ne sgattaiolò fuori, seguendo le complici che l’avevano preceduta.
    «Via, via!» sollecitò Loredana che era qualche metro più avanti rispetto alle compagne, grazie alle calzature più adatte che stava indossando.
    «Forza, Maria! Sono solo cento metri. Dovremmo arrivarci comode, anche se spero che quelli lì dentro non prendano alla lettera la mia minaccia e non aspettino proprio dieci minuti, prima di chiamare i carabinieri» disse Anna.
    Cento metri separavano la locanda dalla macchina di Marcella che, nascosta dietro una semicurva, aveva già il motore acceso.
    «Dai, dai» incitò la guidatrice, mentre le complici balzavano all’interno della Escort che, sgommando, prese la direzione opposta rispetto al locale rapinato.
    Urli di liberazione risuonarono all’interno dell’abitacolo dove le ragazze iniziavano a togliersi le maschere.
    «Ce l’abbiamo fatta! Grandi, siamo grandi!» gridò Loredana, sciogliendo l’adrenalina accumulata in corpo, mentre Anna notava con soddisfazione che la strada alle loro spalle era totalmente sgombra da minacce.
    Nel frattempo, dopo qualche attimo di indecisione, il padrone della locanda prese coraggio e andò, prima alle finestre e poi fuori dalla porta, per cercare, se non altro, di raccogliere elementi utili all’identificazione delle rapinatrici, ma di queste ormai non vi era più traccia. Quindi, l’uomo compose il numero 112 di pronto intervento.
    «Di cosa ha bisogno?» chiese la voce all’altro capo della linea telefonica.
    «Sono appena stato derubato!».

    Quando il posto di blocco fu smobilitato precipitosamente e i tre carabinieri partirono verso nord, Francesca, acquattata dietro a un albero, capì che il piano di Anna aveva funzionato e i suoi occhi brillarono di gioia. Aspettò ancora qualche minuto e, quando fu sicura che l’incrocio era stato liberato, tornò verso la macchina che aveva nascosto al limitare della boscaglia.
    Nell’abitacolo, Manuela era seduta nel posto del passeggero e sonnecchiava, ancora debole per la perdita di sangue uscito dalla gamba ferita. Quando sentì i passi della compagna che stava tornando, riaprì gli occhi e sorrise.
    «Se ne sono andati?».
    «Sì. Il piano di Anna è riuscito perché i carabinieri se ne sono andati come delle furie. Adesso spero solo che le nostre amiche non si facciano beccare».
    «Non me lo perdonerei mai».
    «Ma non è stata colpa tua se ti hanno ferita. E’ stata solo una maledetta sfortuna. Dai, sta qui tranquilla che vado a terminare il lavoro» disse Francesca, accarezzando dolcemente i capelli dell’amica.
    Aperto il bagagliaio della macchina, l’infermiera prese con sé uno zainetto e si incamminò verso l’interno. Poco prima che iniziasse il sentiero che, attraverso il bosco, portava a nord, sentiero che qualche ora prima era stato percorso dalle compagne per giungere alla locanda che avrebbero assaltato, Francesca giunse in una pietraia dove, nascosto da un grande masso, era stato parcheggiato il furgone sgangherato.
    Eccoci arrivate all’ultimo atto disse fra sé mentre dallo zainetto estraeva una piccola tanica di benzina per trattore, che Maria aveva rinvenuto nella cantina del suo casale. Levato il tappo, cosparse di liquido i quattro lati del furgone, quindi versò benzina sul terreno disegnando una striscia lunga e stretta.
    Quando Francesca valutò che la distanza fosse sufficiente per agire in piena sicurezza, estrasse un accendigas e diede fuoco alla striscia di benzina.
    «Brucia, maledetto furgone e portati dietro tutti i tuoi segreti» disse mentre, voltate le spalle, ritornava verso la propria macchina.
    E quando la Renault Clio svoltò verso sud, in direzione di Savona, le due donne a bordo sentirono i primi botti in lontananza, segno che il fuoco purificatore stava distruggendo tutte le tracce dell’impresa della notte precedente.

    Mentre si stava portando sul luogo della seconda rapina, il commissario Regozzi sentiva crescere, dentro di sé, tutte le perplessità relative a questa vicenda. Perché mai, si chiedeva, una banda di rapinatrici che aveva appena assaltato con successo una villa, con un ingente bottino, replicava a poche ore di distanza derubando un’obiettivo infinitamente più modesto? Questa domanda gli stava martellando il cervello e si rendeva conto che, forse, la foga di mettere il sale sulla coda a quelle femmine impertinenti e l’avidità di incassare il premio promessogli da Lucien Leducq lo avevano reso troppo precipitoso nelle decisioni. Per togliersi il dubbio, invitò il proprio autista ad aumentare la velocità.
    «Erano solo tre?» domandò appena il barista ebbe finito il racconto della rapina.
    «Sì. Come le ho detto».
    «E le altre?».
    «Quali altre?».
    Regozzi faceva ad alta voce domande che, in realtà, erano per sé stesso. L’abbigliamento e le maschere usati in questa rapina coincidevano esattamente con quella alla Collina dei Fiori, ma era tutto il resto che non combaciava. E che continuava a non avere un senso.
    «Mi ripeta, per favore, come sono andati i fatti».
    Mentre il barista, un po’ stizzito, ripeteva la sua storia che veniva confermata anche dagli altri testimoni, il commissario cercava di ripercorrere i passi delle tre rapinatrici come se volesse trovare, in questo modo, il bandolo della matassa che gli stava sfuggendo.
    «E questo che cos’è?» chiese, ad un tratto.
    «Non l’ho mai visto prima. Non è roba mia» rispose il meravigliato padrone.
    Regozzi raccolse un sacco nero e ne svuotò il contenuto sul banco.
    «Ma questi… ma questi sono i miei soldi!» esclamò il barista. «Che significa?».
    «Me lo dica lei!».
    «Non ne ho la più pallida idea!» rispose il padrone, nel più completo smarrimento.
    Pochi istanti dopo il commissario era all’esterno e, come morso da una tarantola, corse alla ricetrasmittente:
    «Centrale? Sono già stati smobilitati i posti di blocco?».
    «Affermativo! Come da sue istruzioni».
    Dopo aver chiuso la comunicazione, Regozzi guardò il suo autista e gli disse:
    «Ci hanno gabbati!».

    Liberati i posti di blocco, le macchine dei carabinieri percorrevano le strade della zona, alla ricerca di indizi utili alla cattura delle rapinatrici. Una di queste vetture procedeva, a moderata velocità, lungo la strada interna in direzione ovest, verso la locanda che era stata rapinata nel pomeriggio. A un tratto, il maresciallo seduto a fianco dell’autista notò che, attorno a una Ford Escort parcheggiata in una piazzola, alcune donne si stavano muovendo freneticamente.
    «Vai avanti per cento metri ancora, poi girati e torna verso quella macchina» intimò al suo sottoposto.
    In quel breve lasso di tempo, Anna e compagne risalirono in macchina, dopo aver indossato, sopra le calze, jeans e un paio di scarpette da ginnastica. La Ford ripartì, ma bastarono poche centinaia di metri perché Marcella si accorgesse, guardando nello specchietto retrovisore, che la macchina dei carabinieri la stava raggiungendo a forte velocità.
    «Ragazze, abbiamo visite».
    «Forse non sono qui per noi» disse Anna, dopo essersi girata per controllare la situazione, ma la sua voce tradiva l’ansia che stava crescendo in lei.
    Quando le quattro amiche udirono un colpo di sirena e videro che il maresciallo, dal finestrino, faceva segno di accostare, capirono che la loro corsa era terminata.
    La macchina dei carabinieri si fermò una decina di metri più avanti rispetto alla Ford.
    «Ora, attento! Mentre io vado a parlare, tu resta in piedi, qui fuori, con la mitraglietta pronta» disse il maresciallo al proprio autista.
    All’interno della Escort, le ragazze si guardarono tra loro, senza avere alcuna soluzione al guaio in cui si erano cacciate. Marcella girò gli occhi verso il cassetto del cruscotto dove era nascosta la pistola vera, quella sottratta a Ermanno, ma Anna la stoppò subito.
    «No! E’ finita! Non ci sono possibilità di cavarcela».
    «Mio Dio! E adesso?» domandò Loredana, mentre al suo fianco Maria cominciava a tremare dalla disperazione.
    «Non lo so cosa succederà. Proveremo a dire la verità, nuda e cruda».
    «Già… e chi ci crederà?» intervenne una sconcertata Marcella.
    «Purtroppo non ci sono altre soluzioni. Spero solo che Francesca e Manuela siano riuscite a mettersi in salvo».
    Mentre diceva queste parole, Anna andava con la mente ai suoi familiari e alle reazioni che avrebbero avuto verso il suo operato. Ma i suoi pensieri furono interrotti dal rumore delle nocche del maresciallo, che stavano bussando sul vetro.
    «Documenti, per favore!» disse egli, appena Marcella ebbe aperto il finestrino.
    Il maresciallo diede un’occhiata anche alle altre occupanti, prima di ritornare a concentrarsi su Marcella ma, di colpo, tornò a guardare la donna che ne era seduta al fianco.
    «Signora Pantelli?» chiese dopo un’attimo di incertezza.
    Anna rimase un po’ come stordita per il fatto di essere stata chiamata e stentò a riconoscere, nella penombra, la figura alta che la stava osservando.
    «Ah… signor Nicosia» rispose in un tono che non riusciva a celare la delusione di essere smascherata da un conoscente.
    «L’ho riconosciuta solo ora. Mi scusi… stiamo facendo dei controlli a seguito di alcune rapine avvenute nella zona» disse il maresciallo che, dopo aver guardato distrattamente i documenti di Marcella, li restituì subito alla legittima proprietaria.
    «Oh… capisco».
    «Bene! E’ tutto a posto! Potete andare, buon viaggio».
    Mentre la Ford ripartiva, Nicosia tornò verso il proprio autista che lo stava guardando perplesso.
    «Falso allarme» gli comunicò. «Sai chi era una delle occupanti? Una maestra elementare di Savona che ha il figlio in prima, assieme alla mia Agata. Altro che rapinatrici!».

    Passarono diversi minuti prima che Anna e compagne si riprendessero dallo spavento appena occorso. Rimasero in silenzio finchè Marcella sospirò e disse:
    «Che culo, ragazze!».
    L’esternazione di Marcella provocò le risate delle amiche: risate che servirono a far svaporare tutta la tensione accumulata.
    Oramai, stava calando il buio e, imboccata la strada che riportava verso il litorale, i fari delle automobili che venivano in senso contrario si fecero più numerosi. Da diverse decine di minuti, non si avevano più segnali né di lampeggianti, né di sirene dei carabinieri. L’atmosfera divenne più rilassata. Marcella accese l’autoradio, sintonizzandola su una stazione locale, dove stavano trasmettendo musica reggae.
    «Con la mia parte di soldi, andrò in Giamaica. Ho deciso!» disse.
    «A proposito. Come faremo a monetizzare i lingotti, l’argenteria e tutto il resto?» domandò Loredana.
    «Magari cominciamo a pensarci da domani» rispose Anna. «Con tutto quello che abbiamo passato in questi due giorni, adesso ho la testa che non ha più voglia di ragionare. Godiamoci questa musica e rilassiamoci».
    Alle diciotto, la radio trasmise il notiziario della sera. Le quattro amiche smisero di chiacchierare e rimasero in silenzio ad ascoltare le notizie. Con grande sorpresa, ma anche sollievo nello stesso tempo, scoprirono che la notizia delle rapine era stata superata da quelle relative allo spread e alle polemiche sulla ricostruzione del ponte crollato a Genova.
    «Avevi ragione tu, Marcella» disse Anna con soddisfazione. «Stiamo già entrando, piano piano, nel dimenticatoio».
    Il giornalista informava sugli ultimi sviluppi riguardo ciò che era successo sulla Collina dei Fiori: erano ricercate alcune donne, in numero imprecisato, erano stati istituiti posti di blocco che non avevano avuto esito, ma soprattutto le criminali avevano replicato, rapinando una locanda dell’entroterra e ciò le rendeva estremamente pericolose.
    Le ragazze si guardarono fra loro, ridacchiando.
    Subito dopo però, la radio dava notizia che una macchina dei rapinatori, nella fuga, era precipitata lungo la scogliera, prendendo fuoco. Gli occupanti, sicuramente un uomo e una donna, erano periti carbonizzati.
    Nella Ford Escort calò il gelo. Tutte e quattro capirono al volo che Diana era morta con il suo amante. Anna fu presa da un forte sconforto. Nelle ore precedenti, aveva odiato, minacciato, augurato ogni male all’amica che l’aveva tradita, ma ora che la morte era venuta davvero a bussare alla porta di Diana, lei si sentiva in colpa.
    In quel momento, un messaggio sul cellulare avvisava che Francesca e Manuela erano in salvo, a Savona. Anna lo comunicò alle compagne, ma non ci fu nessun moto di gioia per la bella notizia. Tutte erano assorte nei loro pensieri e non avevano voglia di proferire parola.
    Anna appoggiò la testa al vetro del finestrino e chiuse gli occhi, pensando a tutti i momenti belli che aveva trascorso con Diana dai tempi della scuola fino agli ultimi giorni, alle risate, alle battute, alle prese in giro, ai ragazzi che le corteggiavano, alle giornate passate insieme sulla spiaggia. Cercò di cancellare dalla memoria le ultime ore, quelle che avevano rovinato un rapporto così bello.
    E intanto teneva lo sguardo perso nel vuoto, mentre la macchina proseguiva il tragitto verso casa nell’assoluto silenzio. Soltanto quando fu arrivata in città, mandò un messaggio a casa preannunciando il proprio arrivo.
    Quando, dopo aver scaricato Loredana e Maria, la Ford Escort giunse alla fermata dell’autobus vicina a casa Pantelli, Anna si girò verso Marcella.
    «Scusami se mi sono isolata nei miei pensieri».
    «Figurati! Siamo tutte sconvolte. Ci sentiamo più avanti».
    Chiusa la portiera, Anna cominciò a camminare lentamente verso casa, tenendo in mano il borsone contenente, fra le altre cose, i vestiti indossati durante la rapina e la sua pistola giocattolo. Quando fu arrivata a pochi metri dalla porta di casa, vide tre sagome che la stavano aspettando fuori, come un comitato di ricevimento.
    «Efrem! Katia!» disse inginocchiandosi, mentre i suoi occhi non riuscivano a trattenere le lacrime.
    «Mamma! Mamma!» gridarono all’unisono i due bambini, correndo verso di lei.
    «La mamma è tornata, tesorucci miei».
    «Non vai via più?» chiese Efrem in tono preoccupato.
    «No. La mamma non va via più. La vacanza è finita. Non vi lascerò mai più».
    Quell’Anna, che per due giorni si era lasciata avvinghiare dai tentacoli suadenti del crimine, era morta definitivamente.


    FINE
     
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    Storia veramente spettacolare!! Dall'inizio alla fine.....con un finale tutt'altro che scontato!! Davvero complimenti....è stato un piacere leggere questi capitoli!!
     
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  3. andrea68rapi
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    Grazie 😊
     
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  4. andrea68rapi
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    Grazie 😊😊😊
     
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